Ultimamente sto leggendo molti libri sulla Palestina, perché non riesco quasi a pensare ad altro. Sarà che la situazione sta precipitando sempre di più, ed è veramente tardi. Solo ora qualcosa sembra cambiare, ma la domanda è sempre quella: perché si è aspettato così tanto? Perché arrivare sempre tardi?
Io so che da quando ho aperto gli occhi, mi sento profondamente cambiata. Non riesco a pensare solo a me stessa, alla mia vita, in ogni cosa che faccio il mio pensiero va a quella terra. Mi sento piccola, impotente, mi sembra sempre di fare poco ma è quello che posso fare. Nel mio piccolo, poi, sto cercando di trasmettere il più possibile attraverso i libri. E spero di aver in qualche modo spinto qualcuno a muoversi, a leggere, a conoscere la verità, andando oltre la triste e terribile propaganda che proviene dall'oppressore e dai suoi complici.
Ma veniamo ai libri. Da qualche giorno ho concluso una raccolta di racconti che mi è stata gentilmente inviata dalla casa editrice emuse, per cui ringrazio con tutto il cuore Grazia. Si tratta di Le ferite ci raccontano, di Ziad Khaddash, scrittore palestinese che attualmente vive nel campo profughi di Jalazone, nei pressi di Ramallah. Questo è il suo primo libro tradotto in italiano, a cura di Enrica Fei.
«Perché questi uomini sconosciuti sono sempre davanti a casa?» chiede alla nonna la nipotina ebrea di quattro anni. «Guardano su al nostro balcone e poi di nuovo giù alle fotografie che hanno in mano. Ci sono dei bambini con loro e hanno gli occhi pieni di lacrime».
«Sono i soliti ladri non ebrei, tesoro mio: cercano di rubare la macchina del nonno. Chiamerò la polizia come faccio sempre.»

Inizia così il primo brevissimo racconto di questa raccolta, e subito Ziad Khaddash mi ha lasciata spiazzata. In poche parole ho provato quella sensazione di ipocrisia che viene portata avanti dalla propaganda del governo israeliano e di tutti quelli che credono profondamente nell'ideologia sionista. Quegli sguardi colmi di lacrime che osservano una casa non più loro, spazzata via dai coloni, che addirittura li accusano di essere ladri. Loro. Certo.
Le ferite ci raccontano è una raccolta di racconti brevi - alcuni anche solo una o due pagine - in cui l'autore narra la vita dei Palestinesi in Cisgiordania, più precisamente nella città di Ramallah, o nel campo profughi di Jalazone dove vive - dopo che la sua famiglia fu costretta a lasciare il villaggio di Beit Nabala durante la Nakba del 1948 -.
Sono frammenti di memoria, di vita, piccoli rapidi scorci che cercano di presentare ai lettori la quotidianità della vita sotto l'occupazione israeliana. Esperienze umane che possono essere simili alle nostre, fatte di amore, sogni, lavoro, ossessioni, passioni, ma in un contesto di oppressione. Ricordi di infanzia, frammenti biografici e finzione. Tanti sono i personaggi che dialogano o sono osservati dall'autore e che emergono tra queste pagine: persone che cercano di amare, con la passione per la lettura o la musica, che tentano di sopravvivere in ogni modo, o che sognano una realtà diversa, o bambini che si fermano davanti a un negozio di giocattoli, ogni giorno, semplicemente a osservare qualcosa che forse è troppo distante dalle proprie possibilità. O forse, possiamo vederli come bambini a cui è stata negata l'infanzia, dovendo spesso diventare adulti troppo presto.
Khaddash intreccia realtà e finzione creando così anche vicende molto surreali, che spiazzano con certi finali. Più volte mi sono chiesta, in effetti, il possibile significato, e forse, non sempre sono riuscita a comprenderli totalmente.
In effetti la sua è una scrittura sicuramente originale, che si discosta dalla narrazione strettamente politica o emotiva. Combina una serie di stili e registri differenti, con una prosa diretta, semplice, per poi passare a una forma più lirica e poetica. Vuole raccontare il suo popolo in una forma nuova rispetto al consueto, seguendo però il medesimo impulso: l'amore per la Palestina e la difesa della sua dignità.
Vuole mostrare le ferite dell'uomo e della sua terra, senza però cadere nella retorica della pietà, ma cercando di far emergere il dolore e la bellezza celati nelle crepe più profonde.
Ci sono racconti umoristici, ma anche altri che assumono sfumature più drammatiche. Alcune storie sembrano nitide, chiare, altre lasciano dei finali che destabilizzano un po' chi legge, o perlomeno nei suoi aspetti più surreali mi ha lasciata un po' titubante, sorpresa, incapace di formulare un pensiero ben preciso su quanto letto.
Non ti ho lasciata. Sono qui, nel buio di una prigione, illuminato dalle tue parole. Ti aspetto e ti scrivo.
[...]
Io, intanto, sedevo accanto alla mia bella e intelligente senza parlarle mai. Eravamo entrambi molto felici di sottrarre all'oscurità le parole di quell'uomo innamorato che, dalla sua cella, combatteva per la resistenza.
Sicuramente è un libro che si discosta da una forma narrativa che ho - per ora - sempre letto, eppure mi ha colpita molto. Ziad Khaddash lega amori e carri armati, paura e piacere, esperienze di vita personali a descrizioni delle figure che ha incontrato nel corso della sua esistenza, cercando di delineare quelle ferite personali ma anche della sua terra, senza però essere bloccato nella spirale del fanatismo, del lamento, della paura e del pianto - come ho letto in una sua intervista -.
I racconti che mi hanno colpita forse un po' di più sono:
- Uomini sconosciuti, dove una bambina ebrea interroga la nonna sulla presenza di uomini, donne e bambini sconosciuti che guardano il loro balcone e poi delle foto con gli occhi gonfi di lacrime.
- Una piccola artista nella città del sole: lei vive nella città dura e remota, ma un giorno la sua maestra di recitazione le dice che esiste una città dove si beve la libertà, la città del sole. Ma nessuno vuole spiegarle dove e cosa sia. E perché il suo 'matto' zio la collega al dolore?
- Il negozio di giocattoli, con protagonisti due bambini che spingono ogni giorno un carretto del pane su una ripida salita, per poi fermarsi, all'improvviso, a guardare questo negozio.
- Le ferite ci raccontano, che dà anche il nome alla raccolta, nella quale l'autore descrive una studentessa di cui si era innamorato, che aveva una cicatrice appena visibile sulla fronte, e che ai suoi occhi disegnava i contorni di un tulipano.
- Senza parlarle mai: nella biblioteca pubblica di Ramallah, s'intrecciano letture e biglietti lasciati nei libri, e un modo per sottrarre all'oscurità le parole di un uomo innamorato che, dalla sua buia cella, combatteva per la libertà.
- Amo l'amore di Gerusalemme, dove una ragazza deve leggere la lettera che suo nonno le diede prima di morire, proprio a Gerusalemme. Tra amori tra uomini e donne, e l'amore per Gerusalemme, per la terra.
- Uno scrittore di racconti brevi non obbedisce agli ordini dei soldati, dove con un tono molto diretto, e non pietoso, riesce a esprimere bene cosa significhi vivere sotto occupazione, con i continui controlli ai checkpoint, e l'impossibilità di essersi liberi di muoversi in quella terra. Anzi, si è costantemente sottoposti all'umiliazione, al controllo, alla violenza, anche se si è uno scrittore di racconti brevi che vuole semplicemente incontrare una vedova.
Amo l'amore di Gerusalemme, l'amore che non ha tempo, che non ha forma. L'amore sospeso e rimandato. Amo l'amore di Gerusalemme, l'amore spezzato dalla mancanza: l'assenza, la dolcezza, la meraviglia cupa e ispiratrice.
Non posso dirvi di più, perché le storie sono così brevi che svelerei troppo.
Ma, sebbene io preferisca forse un'altra forma di narrazione, questa raccolta mi ha colpita ed è sicuramente qualcosa di nuovo e di diverso dal solito. Soprattutto serve anche a ricordare che la Palestina non è solo Gaza, anche la Cisgiordania purtroppo continua a essere colpita dalla violenza israeliana, e i coloni pian piano stanno radendo al suolo tutte le case dei Palestinesi, espandendo il loro controllo.
Scopri il libro qui.