Il 15 maggio si ricorda la Nakba, la “catastrofe”, a seguito della nascita dello stato di Israele sorto sulle rovine delle vite palestinesi.
Nel 1948, infatti, oltre 700 mila persone furono cacciate dalle loro case, dalla loro terra, in un processo di colonialismo e pulizia etnica che è ancora in corso, con la creazione anche di un regime di apartheid che va limitare i diritti e le libertà dei palestinesi, perennemente sotto il controllo, l'oppressione e la violenza degli israeliani.
Nel corso degli ultimi due anni sto cercando di approfondire questo tema e vi invito a farlo anche voi. Conoscere, permette di capire. Di smetterla di credere alle bugie promosse dalla propaganda israeliana - trasmessa anche in Italia con la complicità di molti giornalisti televisivi e non -, e riuscire a conservare forse un briciolo della vostra umanità.
Oltre a saggi e romanzi di cui vi ho già parlato, mi sono concentrata sulla lettura di una raccolta di racconti di fantascienza scritti da diversi autori e autrici palestinesi che sono chiamati a rispondere a una domanda: Come immagini il tuo Paese a cento anni dalla Nakba?
Il mio corpo è mutilato ma la mia mente è libera. Continuerò a combattere finché non sarò completamente libero: corpo, mente e anima.

Palestina 2048, racconti a un secolo dalla Nakba è una raccolta di dodici racconti che cercano di analizzare attraverso la fantascienza e la distopia i sentimenti di alcuni scrittori e scrittrici palestinesi pensando alla loro terra cento anni dopo la Nakba. Il testo è curato da Basma Ghalayini ed è presente anche una postfazione di Valerio Evangelisti che va a riflettere sulla distopia palestinese, per certi versi molto diversa da quella occidentale che forse siamo più abituati a leggere, ma dotata di una scrittura raffinata, elegante, che lascia trapelare una cultura antica mai soffocata interamente. E una costruzione di caratteri credibili, simpatetici, umani, molto più di quanto accade nella fantascienza corrente: brillante nelle idee, fragile nelle psicologie.
Il futuro viene visto come una tela bianca sulla quale proiettare le inquietudini, le preoccupazioni, ma anche i traumi delle varie generazioni di palestinesi. Non è una realtà idilliaca, che offre possibili soluzioni all'oppressione, anzi... il mondo per i palestinesi resta pieno di dolore e di fatica, di sofferenze, di inganni e false via d'uscita che sembrano più flebili sogni, realtà fittizie dove si respira una pace che però sembra più una terribile bugia nella quale adagiarsi, ma che non rappresenta una vera e propria libertà.
Eppure, sono racconti dove si respira anche una forte idea di resistenza. Questo popolo oppresso ancora di più a causa di nuove tecnologie che anziché proporre soluzioni permettono alle autorità israeliane di tenerli ancora di più sotto il loro controllo (addirittura gestendone l'ossigeno stesso!), continua però a resistere a suo modo. E lo fa non dimenticando il passato, ma anzi traendo forza da esso, mossi da quella fede incrollabile per il diritto al ritorno, ma anche attraverso l'importanza dei legami affettivi, che continuano a esistere anche dopo la morte.
Tra queste pagine si scorge anche un altro tema: l'assenza.
Ne Il canto degli uccelli di Saleem Haddad, ad esempio, Aya è una ragazzina di quattordici anni che vive a Gaza City. La vita ora sembra essere tranquilla, anche se la terra è scossa da alcuni suicidi tra i giovani, tra cui quello di suo fratello Ziad che le manca moltissimo. Lui inizia ad apparirle nei sogni e la sua morte sembra solo apparente. Ziad cerca di farle aprire gli occhi, di spingerla a conoscere la verità: quel mondo in cui vive è solo una simulazione creata da Israele sfruttando la memoria collettiva dei Palestinesi. È un'immagine digitale della Palestina e l'unico modo per trovare la libertà è morire. Ma lei, Aya, vuole continuare a vivere in quel sogno o lottare per la propria libertà?
Anche in Un fatto comune, di Rawan Yaghi, troviamo due fratelli che devono vivere in una realtà distopica fatta di muri e droni - ma è davvero distopia o è la terribile realtà che scorre anche sotto i nostri occhi? - eppure tentano di preservare la loro forte umanità.
L'Eroe personale, di Abdalmuti Maqboul offre alla protagonista ormai anziana la possibilità di rivivere momenti con persone care ormai perdute, grazie a un dispositivo che esegue una simulazione intelligente della storia del mondo al contrario, mentre i giocatori osservano.
Sono storie nelle quali la Palestina non è mai davvero libera, ma in cui sono proposti mondi paralleli e realtà virtuali (come in N di Majd Kayyal), tunnel sotterranei, muri invisibili, maschere che permettono di respirare, o ancora hacker che cercano a loro modo di opporsi al regime coloniale, riuscendo a penetrare nei servizi di difesa israeliani, magari proprio grazie all'aiuto più improbabile.
Se da un lato la memoria palestinese viene sfruttata per creare una realtà fittizia, dall'altra c'è la visione di un mondo in cui l'oblio viene visto come l'unica soluzione per vivere in pace. Questo accade nel racconto L'associazione di Samir El-Youssef, dove anche lo studio del passato è vietato e ogni manifestazione tesa a ricordare quello che è accaduto in quella terra prima dell'Accordo del 2028. Ma c'è una misteriosa associazione che non ci sta e lotta per il diritto alla memoria, nel tentativo di recuperare quel tempo di lotta in cui il popolo combatteva fieramente per i propri ideali.
Ci sono poi storie in cui i mondi sembrano davvero distopici, o che ci permettono di immaginare futuri dove i cambiamenti climatici e sociali hanno modificato totalmente quella povera terra. In Vendetta, Tasnim Abutabikh ci mostra una terra devastata dall'inquinamento, in cui tutti sono costretti a indossare maschere per respirare, ma sempre sotto il rigido controllo di Israele. È questo stato, infatti, a gestire le loro vite, persino l'ossigeno che respirano, e a scegliere se e quando disattivare la maschera, senza possibilità di curare eventuali malattie. Ma anche qui si presenta una luce di resistenza che affiora tra le stanze di un piccolo negozio specializzato nella riparazione di protesi.
Questo racconto, insieme a Applicazione 39 di Ahmed Masoud, ci permettono anche di riflettere su come possano aprirsi conflitti tra gli stessi palestinesi, spesso provocati dalle autorità israeliane. In questa storia, troviamo due ragazzi, Rayaan e Ismail, cresciuti come fratelli, che falsificano un documento chiedendo al Comitato Olimpico Internazionale per conto dello Stato di Gaza di ospitare i 39° giochi olimpici estivi del 2048, ma questa loro azione rischia di riaprire i conflitti con gli altri stati indipendenti della Palestina e con Israele stessa, che continua a controllare tutto anche con cani-robot.
Ci sono poi ragazzi che sognano di diventare dei particolari supereroi, no, non quelli della Marvel o Dc, ma qualcosa di diverso: un RoboMicrobo, un minuscolo organismo capace di rintracciare e distruggere germi o batteri nei corpi dei bambini. Questo è il desiderio del protagonista di La maledizione del ragazzo palline di fango di Mazen Haarouf, che vuole salvare sua sorella dal pericolo di essere derubata della sua immaginazione. Siamo in un futuro in cui l'immaginazione dei bambini palestinesi viene rubata e raccolta all'interno di una stella artificiale - Stella Dabraya, il cui nome deriva dall'angelo della morte - ; e questo comporta dei problemi al cervello e induce lo stomaco a sentirsi sempre affamato.
In breve tempo, lui resta l'ultimo palestinese che viene trasferito dalla povera Falasta Sud, alla Grande Israele, dove è sottoposto a dei controlli per estrarre questa sua costante idea di essere un RoboMicrobo: crearlo realmente potrebbe infatti consentire agli israeliani di vivere per sempre.
Eppure, forse non tutto andrà nel verso giusto. E le figure spettrali dei palestinesi uccisi, che sgorgano dal suo corpo, diventeranno una vera e propria condanna per i coloni dei kibbutz.
L'idea degli spiriti dei palestinesi allontanati dalle loro case è ripresa anche nel racconto La chiave, di Anwar Hamed, che secondo me ben delinea uno dei simboli stessi della Nakba: la chiave che i palestinesi cacciati dalla loro terra hanno portato con sé, nella speranza di poter tornare un giorno nelle loro case. Qui abbiamo un punto di vista degli israeliani che, per difendersi dall'odio del mondo, hanno scelto di costruire un muro trasparente, uno scudo invisibile da cui possono accedere solo gli individui autorizzati a cui è stato impiantato un chip nel collo. Ma... cosa sono quei rumori di una chiave che gira nella serratura e che iniziano a sentire tutti?
Mio nonno raccoglieva fotografie di arabi che stringevano chiavi arrugginite di case che non esistevano più. Ma non derideva mai quella gente, come facevano gli altri. Provava una vaga, misteriosa paura nei confronti di quelle persone, pur rendendosi conto che erano impotenti, nell'impossibilità di fare alcunché. Mio nonno temeva le foto di quella gente con le chiavi in mano più di qualsiasi accordo sulle armi firmato dai paesi vicini.
Leggendo questi racconti (ne ho citati solo alcuni) non emerge un vero e proprio odio per l'oppressore, anzi, a mio avviso c'è anche una volontà di far aprire gli occhi agli israeliani stessi, così vittime della loro ideologia sionista, che forse in un certo senso li spinge a essere proprio i nemici di loro stessi. In una di queste storie, un personaggio dice: Dovrebbe ringraziare gli arabi. Alla fine, ci hanno permesso di tornare a essere noi stessi, di ricominciare a costruire senza temere che qualcuno ci faccia del male, quando il problema siamo davvero noi.
Nella prefazione Basma Ghalayini sostiene che l'intento di questo libro è quello di costruire un ponte per coloro che riescono a immaginare questa sofferenza solo come sfondo di un contesto fantastico per comprendere che essa sta avvenendo proprio ora, nel mondo reale.
Secondo me sta tutto qui. In effetti leggere questi racconti è stato in parte diverso rispetto alla lettura di altri romanzi di fantascienza e distopia occidentali. Dopo tutte le immagini viste in questi ultimi due anni, le storie ascoltate o lette, mi sembrava semplicemente di scorgere quella che è la realtà e non la fantasia. Se pensiamo al regime oppressivo che Israele ha instaurato in quella terra, vi sembra poi così diverso da una distopia? Il confine è così sottile che più che racconti immaginati, può sembrare di leggere fatti che potrebbero benissimo accadere, se questa violenza e questo colonialismo non verranno interrotti. O meglio, qualcosa sta già accadendo. Perché se ti chiudono in una striscia di terra e controllano il mare, l'energia, l'acqua, i viveri, se ti controllano e bombardano con droni e altri armi; se non puoi muoverti liberamente, ma sei costretto a essere sempre perquisito ai checkpoint, o altro ancora, non è questa una forma molto simile alla distopia? Loro la stanno vivendo già sulla propria pelle. Eppure, quanta umanità c'è in queste pagine, quanta forza, quanta... resistenza.
Leggete le voci palestinesi.
Leggete le loro storie.
Aprite anche voi gli occhi.
Puoi continuare a vivere in un sogno, se lo desideri.
Non è roba per me. Un conto è vivere in sogno per scelta, un altro conto è rendersi conto di essere prigionieri, di non poter vivere se non nell'asfissia e nella disperazione.
Ringrazio di cuore Lorusso Editore per la copia.